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Jeremy Rifkin: «Ecco le tre cose che cambieranno il mondo. E nella Silicon Valley le big tech spariranno»

Staff Cetri by Staff Cetri
Giugno 2, 2025
in Opinion, technology
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Jeremy Rifkin sui cambiamenti climatici: “bisogna passare a una «governance bioregionale» per ripristinare la natura senza i limiti delle singole nazioni”
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Intervista di Riccardo Luna – 2 giugno 2025

L’ economista americano che prova a unire tecnologie e natura: «I danni del cambiamento climatico non hanno confini. Il nostro è il Pianeta Acqua, dovremmo cambiargli nome». La lectio magistralis alla Venice Climate Week e la presentazione del nuovo libro «Planet Aqua»

“Il mio primo ricordo è di quando avevo due o tre anni: un nostro parente, che era fotografo, cercava di far sedere me e mia sorella gemella per poterci immortalare. Ma noi pensavamo che la cosa fosse molto divertente e quindi continuavamo a saltare avanti e indietro, e a far cadere la sedia, e correvamo in altre stanze e ridevamo. Il mio primo ricordo è noi due che ridiamo. Eppure la nostra infanzia è stata molto difficile, fin dai primi istanti. Eravamo nati pesando meno di un chilo ciascuno, i medici per salvarci la vita dovettero correre in una vicina base aerea per rimediare una specie di farmaco sperimentale che non era stato ancora usato da nessuna parte. Andò bene ma sfortunatamente l’ossigeno di una incubatrice si guastò e mia sorella divenne cieca. Eravamo nati a Denver, in Colorado, la città di mio padre. Mia madre era nata a El Paso, in Texas nel 1911, prima che le donne avessero il diritto di voto. Quasi subito ci trasferimmo a Chicago e sono cresciuto in un quartiere della classe operaia in cui gli uomini lavoravano nei magazzini o nelle acciaierie; ed io, che sono sempre andato in una scuola pubblica, mi sono reso conto presto che c’era una differenza tra la classe operaia e la classe media. Ho cominciato ad inquadrare come funzionava il mondo molto presto”. 

Fonte >>> www.corriere.it/economia/finanza/02_giugno_2025/jeremy-rifkin-intervista

Quella che segue è una sintesi pubblicata oggi (immagine qui sopra) di una conversazione di ottanta minuti in cui Rifkin ha dato ogni volta risposte lunghissime, argomentando le sue celebri teorie economiche, arricchendole di aneddoti e considerazioni filosofiche e religiose, saltando in continuazione dal passato al futuro senza fermarsi mai sul presente e facendo molta attenzione a non nominare mai Donald Trump nonostante i ripetuti tentativi di portare la conversazione sull’attualità. 

Come nasce l’intuizione di Planet Aqua?
«
E’ una lunga storia. Inizia nel 2001 quando Romano Prodi, un caro amico, che all’epoca era presidente della Commissione europea, venne a Washington. Ci incontrammo all’ambasciata e mi disse: la nostra civiltà è in un momento di trasformazione ma in Europa non siamo abbastanza veloci, vieni a darci una mano. E per un po’ ho fatto il pendolare; avevo appena scritto un libro sull’economia dell’idrogeno e la Commissione dopo poco ha lanciato un piano per realizzare quelle idee. Sono passati venticinque anni e ora finalmente si vedono dei passi avanti. Per un grande cambiamento ci vuole tempo». 

Ma lei adesso propone un nuovo piano che metta l’acqua al centro di tutto.
«
La ragione è semplice: siamo in crisi e se non facciamo nulla il riscaldamento globale causerà la nostra estinzione. Il problema è che per affrontare la crisi usiamo lo stesso manuale di istruzioni che ci ha portato fin qui mentre dovremmo ripensare tutto. Il punto di partenza è l’acqua: senza non ci sarebbe la vita sulla Terra; è l’idrosfera che determina la litosfera, con il suolo, gli alberi, le piante. I nostri seimila anni di civiltà sono stati anni di civiltà idraulica: abbiamo progressivamente provato a controllare l’acqua e metterla al nostro servizio: le dighe, gli argini, gli acquedotti, i bacini idrici sono le tappe di questa storia che va dalla Mesopotamia ai giorni nostri passando per l’Antica Roma».

Il cambiamento climatico è una sorta di ribellione dell’idrosfera all’impatto umano sul pianeta Terra?
«
Quello che sta accadendo è il culmine delle due rivoluzioni industriali che hanno avuto come motore i combustibili fossili. Il sistema ha iniziato a crollare nel luglio 2008. Ero in un piccolo hotel fuori Parigi con i capi di tutte le principali aziende di trasporto e postali ed erano ammutoliti. Dicevano che era tutto fermo perché il petrolio aveva toccato i 147 dollari al barile. E’ stata questa la prima vera crepa della seconda rivoluzione industriale, il crollo finanziario sui mutui subprime di cui tutti parlano fu un piccolo shock secondario. Ora è iniziata la partita finale, i prezzi salgono e crollano, si parla solo di dazi. Ma un nuovo sistema economico è alle porte: l’intelligenza artificiale, le stampanti 3D e le energie rinnovabili saranno il perno di un nuovo mondo decentralizzato».

In realtà il sistema economico appare ogni giorno più centralizzato: alcune aziende della Silicon Valley hanno una tale concentrazione di potere che sembrano poter gestire il mondo. Cosa ci sta sfuggendo?
«
Le grandi aziende della Silicon Valley non saranno più qui tra trent’anni. Il mondo reale sta cambiando, le tecnologie consentono una economia sempre più distribuita e il cambiamento climatico sta ridisegnando la geografia perché i danni che arreca non hanno confini. Il futuro non è degli Stati ma delle bio-regioni, ovvero regioni che condividono degli ecosistemi e se ne prendono cura. E l’unico modo per farlo è rimettere l’acqua al centro. Niente di quello che dico è teoria: sta già accadendo ovunque solo che non siamo capaci di leggere i segnali».

Dopo aver ispirato il Green Deal dell’Unione europea, adesso chiede che venga varato un Blue Deal. A che punto siamo?
«È
 successo indipendentemente da me. Stavo finendo il libro Planet Aqua e il Comitato economico e sociale europeo ha detto: abbiamo bisogno di un Blue Deal perché non abbiamo acqua. A volte ne abbiamo troppa, a volte non ne abbiamo abbastanza; così non possiamo gestire l’industria. Poi è è intervenuto il Comitato delle regioni. E a quel punto abbiamo iniziato ad andare al Parlamento europeo: ora stiamo lavorando con tutti i partiti e devo ringraziare il primo ministro Giorgia Meloni perché, quando era presidente del G7, ha istituzionalizzato la G7 Water Coalition. E’ stata una grande cosa». 

Gli Stati Uniti stanno andando nelle direzione opposta però. Ha vinto un presidente con lo slogan “drill baby drill”. Il petrolio prima di tutto.
«
Dirò una cosa che sorprenderà molti. L’87% delle infrastrutture energetiche degli Stati Uniti d’America sono di proprietà degli Stati, non del governo federale. E questo cambia tutto. Prendete San Antonio: è la nostra sesta città più grande. Nel 2010 mi hanno chiamato per capire su cosa investire dal punto di vista energetico, erano in dubbio fra il nucleare e l’eolico, li ho convinti e oggi il Texas è il più grande produttore di energia eolica degli Stati Uniti. E anche la maggior parte degli altri Stati a maggioranza repubblicana producono energia eolica e solare; non è la politica a decidere il nostro destino, ma l’economia. Il secondo prodotto di consumo più venduto in America in questo momento è un pick up, un camion da macho, l’F150 della Ford, ed è elettrico. A Washington DC dovranno scendere a patti con quello che accade nel mondo reale e con le nuove idee che vengono dalle università dove i corsi di laurea sull’acqua si sono moltiplicati e dove le stampanti 3D sono di casa». 

Veramente il sistema accademico negli Stati Uniti è spaventato a morte perché sta perdendo finanziamenti pubblici e molti ricercatori stanno pianificando di trasferirsi in Europa.
«È vero ma se ci concentriamo solo su questo ci perdiamo il senso della storia: le nuove idee che vengono dalle università stanno cambiando l’economia e quindi il mondo».

La democrazia in America è in pericolo?
«
Certo, è in pericolo, ma c’è qualcosa di più importante che sta accadendo: sta entrando in crisi la visione occidentale del mondo, l’idea, molto americana, che le persone debbano pensare solo ad arricchirsi ad ogni costo, anche distruggendo la natura, perché questo alla fine sarà un vantaggio per tutti. La nostra è una cultura basata sullo sfruttamento della terra ed è ridicolo perché l’acqua è la nostra fonte di vita. Nelle religioni e nelle filosofie orientali si parla di vivere su un pianeta d’acqua, per loro capire la svolta di cui parlo sarà più facile. Europa e Asia hanno molto in comune e condividono un continente, l’Eurasia, separato solo da quattro ponti in Turchia. L’America può farcela solo se i più giovani, la generazione Z, gli Alfa e i Beta, lo capiranno. Io sono vecchio, ma spero nei giovani».

Qual è stato il risultato più importante per il quale vorrebbe essere ricordato?
«Quando ti fai questa domanda sei già morto. Non c’è nulla di speciale in quello che ho fatto. Sono cresciuto nella parte sud di Chicago, ero uno studente nella media, poi ho partecipato alle proteste per i diritti civili e contro la guerra e ho iniziato a guardare al mondo in modo diverso. Sono diventato un economista-attivista, ho sempre cercato di passare dalla teoria alla pratica, avere un impatto».

Anche il nuovo Papa è cresciuto nel South Side di Chicago: vi siete mai incontrati?
«No, ho dieci anni più di lui. Allora era un quartiere prevalentemente di italiani cattolici, infatti mi chiamavano Jerry, perché gli italiani aggiungono una y a tutti i nomi. Per la mia famiglia, ebrea, non fu facile. Una volta una donna entrò in casa e disse a mia madre non potete vivere qui. Come risposta mia mamma ogni anno a Natale metteva una stella ebraica davanti alla finestra».

Cosa si aspetta da questo Papa?
«È troppo presto per dirlo. Papa Francesco era sicuramente sulla strada giusta. Questo ha trascorso gran parte della sua vita nei quartieri poveri dell’America Latina, probabilmente sa cosa fare. Ma io non mi occupo di leader politici o ecclesiastici».

Ha qualche rimpianto? Per esempio non aver vinto il Nobel?
«Quello che ho fatto nella mia vita non è esattamente quello a cui la gente pensa quando si immagina un premio Nobel ma mi appassiona di più il futuro. Vorrei che i giovani avessero in mente tre cose: la prima, ciascuno di noi è un ecosistema collegato alla natura; la seconda, i neuroni a specchio ci consentono di provare empatia e pensare collettivamente e questo ci dà una forza incredibile; e terzo, dobbiamo cambiare il nome al nostro Pianeta così che quando un bambino chiederà a mamma e papà, come si chiama questo posto? Gli diranno, tesoro, vivi su un pianeta d’acqua. Questo cambierà l’intero paradigma per il resto della Storia».

Fonte >>> www.corriere.it/economia/finanza/02_giugno_2025/jeremy-rifkin-intervista

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