Importanti incontri del nostro prof. Jeremy Rifkin all’Assemblea Nazionale ANCI 2025 a Bologna, in foto da sinistra con il giornalista Riccardo Luna, il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il sindaco di Pollica, Stefano Pisani
Articolo di Giuliano Noci riservato agli abbonati premium – lunedì 17 novembre 2025
5 minuti di lettura >>> La lezione europea delle città connesse
Quando ero bambino, passavo spesso davanti a un plastico ferroviario in un vecchio negozio di modellismo. C’era tutto: la stazione, il campanile, la piazza, il municipio in miniatura. La città perfetta. Bastava premere un pulsante e il treno partiva, puntuale, ripetendo sempre lo stesso giro. Nessun imprevisto, nessuna deviazione, nessuna frizione con la realtà. Una città ordinata, rassicurante, soprattutto “controllabile”. Ci penso ogni volta che sento parlare di “pianificazione urbana”. Perché, nel profondo, è esattamente la stessa illusione: la convinzione che un territorio complesso possa essere governato come un plastico, muovendo case, binari e servizi su una mappa perfetta, in scala ridotta. Solo che quel plastico apparteneva agli anni Ottanta.
E il mondo fuori è cambiato così tanto che continuare a ragionare in termini di città è diventato non solo insufficiente, ma fuorviante. A Bologna, all’Assemblea Anci, questo scarto è apparso in tutta la sua evidenza. Da una parte un Paese reale che si muove già come un gigantesco ecosistema territoriale, liquido, interdipendente, senza più rispetto per i confini che abbiamo disegnato sulle mappe. Dall’altra, una politica che continua a parlare di “urbano” come se la vita si esaurisse entro il cartello bianco con il nome del Comune.
E così anche i discorsi più lucidi rischiano di diventare prigionieri di un frame antico. Gaetano Manfredi, presidente Anci e sindaco di Napoli, ha raccontato con pragmatismo il lavoro fatto: Bagnoli, la Coppa America, i fondi europei. Ed è vero: Manfredi ha il merito di aver riportato i Comuni nella dimensione della responsabilità, della concretezza, della cooperazione istituzionale.
Eppure, anche lui, giocoforza, si ritrova costretto a usare una grammatica amministrativa che non regge più l’urto dei tempi. Dall’altro lato del palco, Raffaele Fitto, vicepresidente della Commissione europea, ha annunciato la nuova Agenda europea per le città. Un documento innovativo, dice. E lo è, almeno nelle intenzioni: il 75% dei cittadini europei vive in aree urbane, e quindi la politica deve ripensare le forme della coesione, del welfare, della casa, della sicurezza. Ma anche qui: il problema non è l’area urbana. Il problema è pensare ancora in termini di aree urbane. La verità è che non ha più senso pianificare la città. Non perché sia un concetto sbagliato, ma perché è un concetto incompleto. Non perché non servano politiche urbane, ma perché servono politiche che vanno oltre l’urbano. Prendiamo la vita reale: chi lavora a Pomigliano d’Arco ma studia a Napoli, vive ad Afragola, ha relazioni professionali con Caserta, clienti a Salerno e reti digitali che attraversano l’Europa.
È una persona sola, eppure — secondo il nostro apparato concettuale — vive, produce, consuma, si sposta in cinque “territori diversi”. La domanda è semplice: come si pianifica una realtà che non sta ferma, non rispetta i confini, non coincide con una città ma con una costellazione? La risposta è ancora più semplice: non la si pianifica con l’urbanistica, ma con la territorialità. È esattamente questo lo spirito dell’Hub della Conoscenza e della Zis Brescia–Lodi–Cremona–Mantova. Un’area che non cerca un centro, perché è un centro diffuso. Un sistema che non vive di gerarchie ma di connessioni. Un territorio che non chiede una metropoli di riferimento, perché si riconosce come un’unica piattaforma produttiva, culturale, sociale. È l’anti-plastico perfetto: un territorio reale, vivo, con traiettorie proprie.
Ed è proprio questa la grande sfida che l’Italia deve affrontare: non diventare come gli Stati Uniti, dove poche metropoli vivono in un universo parallelo rispetto al resto del Paese. In America, la differenza tra chi vive dentro e fuori i grandi centri non è una differenza: è una frattura. Economica, culturale, identitaria. L’Italia, con la sua densità storica, produttiva e territoriale, non può permettersi lo stesso destino.
Eppure ci sta andando incontro: investimenti concentrati, politiche urbane che drenano energie, una narrazione che continua a celebrare la città come unico luogo legittimo della modernità. È il momento di dirlo con chiarezza: stiamo pianificando il passato. Stiamo usando strumenti concettuali che appartengono a un mondo che non esiste più. E peggio ancora: stiamo investendo miliardi sulla base di un modello che garantisce sviluppo solo ad alcune aree, lasciandone indietro altre che invece potrebbero essere molto competitive se viste nella loro dimensione sistemica. La pianificazione urbana non è sbagliata. È semplicemente insufficiente.
È come voler progettare un ecosistema guardando solo una radice, senza vedere l’albero. L’Italia non è un insieme di città. È un organismo territoriale complesso, policentrico, ricco, capace di generare innovazione non dove c’è densità, ma dove c’è connessione. Non dove c’è una piazza, ma dove c’è una rete. E allora la domanda è: quanto siamo disposti a cambiare per riconoscere questa verità? Dovremmo iniziare da un gesto semplice, quasi liberatorio: smettere di parlare di città come se fossimo ancora in piena Età comunale. Smettere di credere che la vita si misuri in chilometri quadrati. Smettere di trattare i territori come appendici delle metropoli. E cominciare a vedere ciò che è già sotto i nostri occhi: un Paese fatto di zone. Non zone periferiche, ma zone di opportunità. Zone che chiedono di essere pianificate per ciò che sono, non per ciò che erano: ecosistemi di innovazione, di competenze, di mobilità, di sviluppo. Il resto è nostalgia. E con la nostalgia non si costruiscono né città né territori.







