Il team di Strumentazione Ottica dell’Università degli Studi di Milano ha inventato due nuovi strumenti ottici nell’ambito dei progetti di ricerca SPARK, alle isole Svalbard, e OPTAIR, in Antartide. Il primo è in grado di misurare contemporaneamente la propagazione della luce, la stratigrafia e la dimensione dei cristalli di ghiaccio nel manto nevoso: la misura in tempi più rapidi e in maniera più precisa di come la luce si propaga nella neve consentirà di studiare l’andamento e il rischio climatico. L’altro, al Polo opposto, in Antartide, per monitorare l’aerosol atmosferico, la sua deposizione al suolo e il suo effetto climatico. I risultati del primo anno di misure pubblicati su Scientific Reports.

Il gruppo di Strumentazione Ottica del Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Milano, coordinato da Marco Potenza, ha condotto due studi agli estremi opposti del globo per ideare nuove soluzioni per lo studio del cambiamento climatico.
Alle Isole Svalbard il team, nell’ambito di una attività sfociata recentemente nel progetto “SPARK: Snow Physical properties and Assessment of Radiative transfer in the snowpacK”, ha ideato uno strumento per misurare come la radiazione solare interagisce con la criosfera, elemento di fondamentale importanza per prevedere l’evoluzione climatica del nostro pianeta ma anche per individuare il rischio valanghe.

La neve, grazie alla sua particolare struttura microscopica, è in grado di riflettere una grande quantità di luce solare: questo influisce molto su quanta energia viene assorbita o respinta dalla superficie terrestre. Di conseguenza, condiziona sia i processi idrologici sia il bilancio energetico, dal livello locale fino a quello globale.
Tuttavia, studiare queste interazioni è complesso. Il manto nevoso è un ambiente in continua trasformazione, composto da cristalli di ghiaccio, acqua liquida, vapore acqueo, inclusioni di aria ed altre sostanze. La sua struttura e composizione variano costantemente in risposta a diversi fattori. La neve fresca riflette molto la luce visibile, ma questo effetto diminuisce nel tempo, soprattutto se si depositano impurità come polveri minerali o black carbon. Queste sostanze aumentano l’assorbimento della radiazione, favorendo il riscaldamento e la fusione della neve. Anche la presenza di acqua di fusione all’interno del manto contribuisce a ridurne la riflettività. Questi meccanismi di rafforzamento sono particolarmente evidenti in zone sensibili al cambiamento climatico, come l’Artico e le Alpi italiane.

La luce interagisce profondamente con la neve: anche quantità molto ridotte di particelle assorbenti possono modificarne la persistenza e la struttura. Inoltre, la radiazione solare attiva processi chimici e biologici di grande rilievo. Anche se penetra solo pochi centimetri, può innescare reazioni fotochimiche che trasformano sostanze come bromo, mercurio e materiale organico. La luce trasmessa fornisce anche energia per organismi che vivono sotto la neve, come alghe e microbi, influenzando i cicli stagionali. La neve, quindi, non è solo un materiale “fisso”, ma un ambiente estremamente attivo dal punto di vista fotochimico e biogeochimico.
“Nonostante ciò, la propagazione della radiazione nella neve è ancora poco compreso. I modelli numerici oggi disponibili richiedono molte ipotesi e dipendono da parametri complessi, mentre i dati raccolti direttamente sul campo sono limitati. Colmare questo vuoto è essenziale per migliorare la capacità di prevedere come neve e clima si influenzeranno a vicenda. Avere misure sperimentali più precise sulla propagazione della luce nella neve permetterebbe di comprendere meglio il bilancio energetico locale, i meccanismi di fusione e gli effetti sugli ecosistemi; e nelle regioni che si stanno riscaldando più velocemente, come l’Artico e le Alpi italiane, questa conoscenza è particolarmente urgente” spiega Luca Teruzzi, del gruppo di ricerca dell’Università Statale di Milano.

Le regioni artiche, in particolare le isole Svalbard, offrono un ambiente unico a questo scopo, poiché salendo lungo i ghiacciai è possibile trovare diversi tipi di manto nevoso: a valle si trova neve più umida, che potrebbe essere stata inquinata dall’attività umana, mentre ad altitudini più elevate si trova neve più fredda e asciutta, meno densa e in grado di lasciar penetrare la luce solare più in profondità. Nelle Alpi italiane, sebbene sia possibile raggiungere altitudini molto più elevate, non è possibile trovare una varietà di manto nevoso così ampia.
Il progetto SPARK propone di superare i limiti di misurazione dei cristalli di ghiaccio grazie a una nuova sonda ottica sperimentale, progettata e costruita dal gruppo di Ottica Strumentale dell’Università di Milano. Commenta così Marco Potenza: “E’ sufficiente inserirla nel manto nevoso per ottenere, in modo semplice e rapido, dati quantitativi su vari parametri ottici con un’elevata risoluzione verticale. La tecnologia deriva da due prototipi già testati sul campo, che verranno ora integrati in uno strumento unico in grado di misurare contemporaneamente la propagazione della luce, la stratigrafia e la dimensione dei cristalli di ghiaccio. Questo permetterà di raccogliere molte più informazioni rispetto alle tecniche tradizionali (come misurazioni spettrali e snowpit), riducendo allo stesso tempo i tempi di misura. Questo approccio potrebbe rappresentare la base per lo sviluppo futuro di una stazione permanente completamente automatizzata e remota”.

Il progetto SPARK è stato recentemente insignito del SIOS Innovation Award 2025: SIOS (Svalbard Integrated Observing System) è un consorzio internazionale che riunisce università, enti di ricerca e istituzioni scientifiche che lavorano nell’arcipelago delle Svalbard, una delle regioni del pianeta in cui il cambiamento climatico è più rapido e visibile, con l’obiettivo di coordinare e integrare le osservazioni scientifiche dell’ambiente artico, favorendo la collaborazione tra gruppi di ricerca provenienti da diversi Paesi.
Il gruppo di Strumentazione Ottica della Statale di Milano è impegnato anche in un altro progetto, stavolta al polo antartico: da qualche anno i ricercatori hanno messo a punto un nuovo strumento per monitorare l’aerosol atmosferico e a fare luce sul loro effetto climatico.
Le zone polari, i cui ghiacciai costituiscono uno straordinario archivio di dati scientifici, sono un ambiente particolarmente adatto ad attività di ricerca sull’atmosfera e il clima. Analizzando la stratificazione di particolato atmosferico in carote di ghiaccio si possono ricostruire la circolazione e il carico di aerosol nell’atmosfera del passato, uno dei fattori che influenzano il bilancio radiativo terrestre. Le informazioni ricavabili dalle carote di ghiaccio sono però limitate da una risoluzione temporale che raramente scende sotto l’anno, e la loro analisi dipende da una conoscenza dettagliata delle caratteristiche degli aerosol ai giorni nostri.
Dal 2019 è in corso una campagna di caratterizzazione ottica dell’aerosol atmosferico presso Concordia, la base italo-francese situata presso Dome C, nell’Antartide orientale (75°05′59″S, 123°19′56″E). Le misure sono acquisite con OPTAIR, uno strumento innovativo sviluppato da Marco Potenza, a capo del gruppo di Strumentazione Ottica del Dipartimento di Fisica Aldo Pontremoli. Nello studio pubblicato su Scientific Reports sono discussi i risultati del primo anno di misure, un pioneristico database delle proprietà ottiche degli aerosol che giungono in un luogo remoto percorrendo migliaia di chilometri attraverso la stratosfera. Un progetto finanziato dal Programma Nazionale per la Ricerca in Antartide (PNRA), gestito dal CNR e attuato da ENEA.

OPTAIR è basato sulla tecnica SPES (Single Particle Extinction and Scattering), e da diversi anni opera in continuo e in parallelo alla strumentazione di cui è dotata la base. Dai dati acquisiti si ricavano proprietà con cui il particolato interagisce con la radiazione solare, che sono a loro volta confrontati con dati chimici e meteorologici raccolti in simultanea sul posto da altri progetti di ricerca finanziati dal PNRA. Incrociando queste informazioni è possibile riconoscere la composizione e la provenienza delle particelle, associarle a specifici eventi di trasporto, e in definitiva comprendere meglio il loro effetto sul clima. Le loro proprietà ottiche differiscono in modo significativo a seconda della loro origine e dal fenomeno che ne ha causato il trasporto. Le particelle rilevate sono composte principalmente da sale dell’oceano, sebbene un contributo sia dato anche da frammenti minerali delle sabbie desertiche.
“Grazie all’alta risoluzione temporale delle misure, nell’arco di un anno sono state osservate significative fluttuazioni nel carico di aerosol, ma soprattutto delle sue proprietà ottiche. Oltre un terzo delle particelle sono infatti state depositate durante brevi eventi di subsidenza delle masse d’aria, verificatisi durante l’inverno (corrispondente ai mesi estivi nel nostro emisfero). Questa intermittenza suggerisce che la concentrazione di aerosol misurabile nelle carote di ghiaccio sia una stima inaccurata della concentrazione media effettiva in atmosfera e che, di conseguenza, il suo contributo climatico sia sovrastimato quando si hanno a disposizione unicamente campioni glaciologici integrati nel tempo” conclude Llorenç Cremonesi, uno degli autori dello studio.
Entrambi gli studi sono stati svolti in collaborazione con il laboratorio EuroCold Lab dell’Università di Milano-Bicocca e con il supporto del CNR (stazione Ny-Ålesund alle Svalbard) e delle stazioni italiane del PNRA. Ny-Ålesund è il luogo in cui Aldo Pontremoli, fondatore dell’allora Istituto di Fisica dell’Università degli Studi di Milano, si recò nel 1928 per svolgere studi in area artica con la spedizione guidata da Umberto Nobile, venendo poi coinvolto nel tragico epilogo. Il dipartimento di Fisica della Statale, dedicato proprio ad Aldo Pontremoli, prosegue con le spedizioni di ricerca scientifica nelle zone polari, nel solco tracciato dal suo fondatore, pioniere dell’esplorazione artica.
Fonte Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano – 4 dicembre 2025








